mercoledì 24 febbraio 2016

COMPRENDERE E VIVERE



Sono tanti quelli che dicono che dobbiamo cercare di essere più ottimisti, più rilassati, più propositivi.
Esprimono un desidero di allontanamento dal disagio che ci viene offerto giornalmente, ma io mi chiedo: ha senso? E se ne ha, che conseguenze positive dovrebbe avere?  

Non riesco a vedere in questa pratica una strada per un mondo migliore, anzi, mi dà l’impressione che sia solo un volersi allontanare  per non vedere.  

Siamo assuefatti dalla realtà che ci circonda a tal punto che sembra non farci effetto più niente.
Invece di affrontarla, la subiamo passivamente e tendiamo a dimenticarne l’influenza costante –secondo per secondo- che ha sulle nostre vite.

Quando parlo di realtà non indico il mondo intero, per quello serve una visione più ampia, ma di quella che ci tocca da vicino.
La stessa che, tra un caffè al bar e la lettura di un quotidiano, ci fa arrabbiare, indignare, insorgere (dentro), ma che accantoniamo subito dopo davanti all’altare sacro del “cosa posso fare io?”.  

Le belle parole in stile new age mal si adattano a una situazione che sta stritolando l’individuo dentro un meccanismo schiavista.
Mal si adattano perché non sono pratiche, non sono utili –nella loro forma teorica- a portare un reale cambiamento dentro a una società che predilige e consolida uno status quo ad ogni istante, con ogni movimento, sempre.

La massa di persone e la loro individuale percezione del giusto sono ormai diventati così prevedibili che chi gestisce il Sistema non ha difficoltà a tenerli bloccati.

Come ho detto tante volte, prendendomi anche una caterva di insulti, siamo ancora troppo benestanti. Stiamo bene. Ma stiamo bene nello stesso modo in cui sta bene la rana nel famoso esempio della pentola:
se butti la rana in una pentola di acqua bollente, lei cercherà di saltare via (pur non riuscendoci) e morirà in pochi secondi;
ma se metti la rana in una pentola di acqua fredda, da buon anfibio lei si metterà a nuotare tranquilla, senza accorgersi che il fuoco acceso sotto la pentola la lesserà lentamente.
E morirà comunque.
Ciò che continua a non esserci chiaro, e che non vogliamo comprendere nella sua spaventosa essenza, è che siamo all’interno di una trappola. Tutti quanti.

Il sistema economico che abbiamo accettato passivamente si sta solidificando attorno a noi (l’acqua che si scalda), ma non ne cogliamo il pericolo mortale (finire lessati).                  

A differenza di altri momenti storici, ma senza andare troppo indietro nel tempo, ci siamo adagiati su un Sistema chiaramente oppressivo che però ha usato il lenitivo dell’intrattenimento per sedare le nostre reazioni.
E mentre continua a toglierci certezze, diritti, possibilità, noi scriviamo le nostre profonde indignazioni sul web (lo sto facendo anch’io, in questo momento), ma non ci muoviamo dalla nostra posizione.
Non lo facciamo perché siamo terrorizzati dall’idea di perdere quel poco (o molto) che abbiamo faticosamente conquistato.
Quello che è “nostro”.
Ed è il concetto di possesso, assieme all’intrattenimento, sui quali si basa la morsa psicologica che ci impedisce di reagire.

Cos’abbiamo realmente di “nostro”?
La casa? L’automobile? Il televisore da 40 pollici? L’orologio pregiato? Gioielli? Un conto in banca?

Queste cose sono oggetti. A parte poche centinaia di persone realmente ricche (di contanti) questi oggetti li abbiamo comprati con denaro che, se non è stato guadagnato, abbiamo chiesto in prestito a una banca.
Eppure, la casa ha una tassa che va pagata. La macchina ha una tassa che va pagata. Persino il televisore ha una tassa. E se le tasse non vengono pagate, se il mutuo o il prestito non viene onorato (possono succedere tante cose, come la perdita del lavoro) questi oggetti vengono portati via dallo Stato per pagare i debiti.

Gli altri oggetti non soggetti a tassazione, ma preziosi, serviranno al medesimo scopo. Pagare. Quindi, realmente, cosa abbiamo di “nostro”? A parte qualche oggetto di poco valore economico, ma di valore affettivo, l’unica cosa che abbiamo e che possiamo a gran voce dichiarare “nostra” è la vita. La nostra vita.
Ed è qui che entriamo in confusione.

Sul concetto semplice di vita noi andiamo in corto circuito.
Non capiamo.
Dal momento della nostra nascita veniamo cresciuti nella convinzione di dover imparare una serie di cose attraverso un ciclo di studi (percorso scolastico) che servirà a introdurci nel migliore dei modi nel mondo del lavoro.

Non si tratta di scegliere se farlo o no, ma solo di come. Per un certo periodo avremo l’obbligo di frequenza e successivamente potremo continuare o interrompere.
Il fine ultimo, comunque, non è imparare e basta, ma “imparare per lavorare”.
Imparare e basta potrà essere una nostra scelta nella misura in cui saremo stati affiancati da genitori e/o insegnanti portati a farci apprezzare il semplice concetto di “sapere”.
Di solito questo avviene dopo il ciclo di studi, difficilmente si presenta durante.

Bene, quindi noi cresciamo, a tutti gli effetti, per diventare lavoratori. I  lavoratori sono “soggetti produttivi” e non hanno nessun’altra funzione.

Il lavoro retribuito serve a mettere a nostra disposizione una certa quantità di denaro con il quale possiamo avviare la catena dei consumi che il Sistema richiede per sostenere sé stesso.

Lo so, messa giù così è abbastanza brutale, ma non c’è scappatoia. È così e basta.

In qualità di soggetti produttivi noi permettiamo che la macchina economica non si fermi e grazie alla retribuzione immettiamo denaro all’interno della stessa macchina, in un circolo vizioso. Certo, voi direte che è ovvio e che il sistema capitalistico funziona così. Non proprio: tutti i sistemi funzionano così. Tutti i sistemi basati sul denaro come unità di misura di ogni tipo di servizio.
Ora vorrei soffermarmi sulle parole con cui sono partito all’inizio dell’articolo. Ottimismo, rilassamento, propositività.

Perché dovremmo abbracciare queste parole per vivere meglio? È vero che atteggiamenti di questo tipo ci aiuterebbero nell’affrontare la vita di tutti i giorni?      

In parte, sì. Solo in parte.

È chiaro che se riusciamo a vedere “il bicchiere mezzo pieno” in ogni situazione possiamo andare incontro a un “vivere migliore”, ma è anche vero che questo sarebbe soltanto un palliativo.

Non cambia ciò che viviamo, non muta il Sistema in cui siamo inseriti, non risolve i problemi. Ritengo, invece, che una presa di coscienza profonda di ciò che è il meccanismo sia essenziale per poter iniziare una forma di reazione.

Capire, comprendere e espellere le scorie di questo Sistema si può fare. La coercizione presente nelle nostre vite (lavoro-denaro-acquisto) è talmente radicata che anche quando ci abbandoniamo a simili pratiche di distaccamento (ottimismo, relax e propositività) rimaniamo comunque incastrati tra gli ingranaggi, con la sola differenza che “pensiamo” di poterne uscire. Di poterci distogliere. Non è così.
Ho scritto: capire, comprendere e espellere le scorie di questo Sistema si può fare. Non è una bufaletta da quattro soldi.

Solo attraverso la reale comprensione di come funziona il Sistema (e l’individuazione dei suoi artefici) possiamo iniziare a uscire da un complesso meccanismo mentale che ha radici profonde, lontane.

Sin dalla nascita veniamo portati a un certo tipo di “pensiero-azione”, convinti di aver bisogno di cose che invece non servono.

Quello di cui abbiamo bisogno, realmente, è vivere.
Vivere liberi dalle catene mentali (e fisiche) con cui siamo cresciuti.
Come esseri viventi abbiamo il diritto di vivere.
Come esseri intelligenti abbiamo il dovere di smettere di sopravvivere.  
Tutti.

lunedì 22 febbraio 2016

RIVOLUZIONI




Come aggiustiamo un paese che non vuole essere aggiustato? Come possiamo rimediare a una situazione che è palesemente degenerata?
Forse non è possibile. O almeno, non lo è finché continuiamo a voler tenere la testa sotto la sabbia.  

Ho scritto: un paese che non vuole essere aggiustato. Ed è vero. 
Ciò, però, non deve indurre al pensiero che sia la classe politica (chi legifera) il problema, perché essa è l’effetto prodotto dal nostro continuo silenzio-assenso. 

Noi abbiamo accettato: un certo numero di promesse; un certo numero di idee; abbiamo chiuso gli occhi di fronte a lapalissiane storture; “perdonato” una serie infinita di deviazioni dal concetto principale, quello di far crescere il nostro paese. 
In una parola: compromessi. 

È fondamentale comprendere che la prima responsabilità di quello che accade è nostra, perché senza questa consapevolezza continueremo ad aspettare l’arrivo di un salvatore che ci traini fuori dal fango in cui stiamo agonizzando. E ciò non avverrà mai.
Allora, come ribaltiamo la situazione? 


Beppe Grillo, quando ancora faceva il comico satirico, disse una cosa che non abbiamo compreso: la politica è al servizio dello Stato e dei cittadini, non il contrario.
Tenuto in debito conto questo concetto risulta semplice dedurre che non si può prendere per buone le parole della classe politica (tutta) quando afferma che “bisogna fare sforzi per risollevare il paese”, perché questi sforzi sono chiesti ai cittadini dello stato escludendo quelli che dovrebbero rispondere per primi a questa chiamata (la classe politica, appunto). 


L’esempio di un’azienda risulta chiarificatore: 
un'azienda è un organo che a seguito di prestazioni (qualsiasi esse siano) riceve dei compensi.
Su questi compensi gravano una serie di imposte e detrazioni fisse (stipendi dei lavoratori dell’azienda e altro) e una volta esaurite tutte le spese ciò che rimane è l’utile dell’azienda. Il guadagno.
Se però l’azienda, nella figura dei suoi dirigenti e dei lavoratori, opera male e perde compensi, ne consegue che si deve cercare la responsabilità e quindi si deve individuare colui (o coloro) che è responsabile del cattivo andamento dell’azienda stessa.
Normalmente questo comporta un licenziamento per i dirigenti e/o i lavoratori indicati come cause della perdita. 

Ora che abbiamo fatto questo piccolo e banale esempio, pensiamo all’Italia come a una azienda e arriviamo al sospirato nocciolo della questione: se l’Italia va male perché è amministrata da anni in modo inefficace e improduttivo, perché a farne le spese devono essere i cittadini che non legiferano?
Perché dovremmo essere noi a pagare per il cattivo funzionamento dello Stato quando non abbiamo voce in capitolo sulle leggi che vengono promulgate? Appunto.
E infatti qui si torna a bomba all’inizio: l’unica arma a nostra disposizione, finora, è stata la votazione. Le elezioni. Straordinario! 

Ma è vero che è l’unica arma? Ed è vero che l’abbiamo usata bene? 


Fino a oggi per poter cambiare le cose (guida politica) abbiamo avuto le elezioni come sistema per far sentire la nostra voce. In realtà ciò che non ci è mai stato chiaro, nemmeno ora ed è evidente, è che l’èlite seduta in Parlamento è stata sempre quella e, soprattutto, che sembra esserci un virus che contagia i nuovi arrivati; prima di andare a sedersi sugli scranni sembrano battaglieri alfieri dei cittadini e dopo si trasformano in avvoltoi.

Certo, si può obiettare che non si può applicare questa frase a tutti gli eletti, ma dal momento che la maggior parte si comporta in questo modo è lecito desumere che: 
a) parecchi prima erano dei falsi onesti;
b) alcuni sono rimasti onesti ma vengono relegati a comparse o tartassati personalmente per “non nuocere al Sistema”.


Purtroppo, le prove a sostegno di un Parlamento viziato da meri interessi personali sono così tante che anche gli onesti parlamentari (pare che ce ne siano...) finiscono nel tritacarne del “sono tutti uguali” e non si può giudicare male il pensiero del cittadino se egli è portato a una simile considerazione. 

Bene. È necessario, quindi, un cambiamento radicale.
Possiamo esercitarlo con il voto? La risposta è no e il motivo è paradossale. 

Nello sconfortante panorama politico le alternative di voto non sono molte.
Quando siamo alle urne noi tendiamo a fare considerazioni di questo tipo (userò i colori per distinguere): 
a) i bianchi sono stati al potere tanto tempo e non hanno cambiato nulla; 
b) i rossi sono stati poco al potere, ma non hanno cambiato quasi niente; 
c) i verdi non ci sono mai stati (al potere) e se si dimostrassero inadeguati farebbero più danno, quindi voterò o i bianchi o i rossi; 
d) non voto nessuno; 
e) (estremo) non vado a votare. 

Questi sono i cinque “casi-tipo” dell’elettore medio. E come risulta chiaro, non se ne esce, perché l’unica cosa abbastanza ragionevole sarebbe di permettere ai verdi di poter dar prova della loro capacità di governare.
Anche perché, qualora non fossero in grado, le opposizioni li farebbero a pezzi facendo cadere il governo e riportando il paese a nuove elezioni.

In ognuno di questi scenari il potere dei cittadini è legato a un voto, a una scheda e alle urne. Troppo poco per un paese completamente in mano alla corruzione in ogni ufficio, in ogni angolo e interstizio del mondo politico/parlamentare.

Quindi, abbiamo usato l’arma delle elezioni come potevamo e al meglio delle nostre (limitate) capacità di giudizio, supponendo che presto o tardi la legalità avrebbe vinto. Un’utopia. 


L’altra arma che abbiamo in mano per tentare di portare coloro che governano a più miti consigli è colpire dove risulta più difficile fermarci. La produzione e il lavoro. 

Ciò che noi chiamiamo “tasse” è un ingarbugliato sistema che raccoglie, in modo forzoso, del denaro dalle tasche di ogni cittadino (e di ogni azienda) e lo devolve alle casse dello Stato. 

Quel che viene fatto con queste tasse è un agglomerato spaventoso di cose, tra le quali ci sono anche gli stipendi dei “nostri amici parlamentari”.
È chiaro che bloccare la produzione significa, prima di tutto, danneggiare delle aziende, soprattutto quelle grandi. È un ostacolo che non è possibile aggirare e temere di essere “cattivi” agendo in questo modo è esattamente quello che vogliono farci credere. 

È dalla produzione (in tutte le sue sfaccettature) che passa la gran parte delle risorse monetarie che finiscono nelle casse statali con le tasse e bloccando questo flusso si manderebbe in stallo il Sistema, immaginandolo come un immenso groviglio di ingranaggi. 

Per comprendere come potrebbe funzionare immaginate che per 72 ore le produzioni industriali, i servizi, le microimprese, si fermino.
Immaginate che altrettanto facciano i fruitori (gli utenti) di tutta una serie di servizi (pubblici e privati). Cioè, qualche milione di lavoratori che rimangono a casa senza preavviso. 
Dai manager ai tecnici specializzati, dagli operai ai commessi. E che gli avventori non si rechino ai soliti acquisti quotidiani per lo stesso tempo, 72 ore. Tutto fermo.


Quando si dice che il tempo è denaro…
Provate a pensare al danno che si verrebbe a creare, in termini economici, per un simile stallo di soli tre (3) giorni. Produzione ferma, economia ferma. Uno sciopero ad ampio raggio su tutto il territorio nazionale.
La perdita sarebbe spaventosa e probabilmente risulta di difficile previsione. 


E qui sorge una domanda: come reagirebbe un governo di fronte a una nazione ferma? Una nazione che si rifiuta di obbedire semplicemente ponendo a terra i suoi strumenti di lavoro e lasciando nel portafoglio anche i soldi della spesa?
Come potrebbe un governo rispondere a una simile situazione? Difficile prevederlo. 

Probabilmente le prime reazioni politiche sarebbero quelle di sciacallaggio informativo. Cavalcare l’onda del dissenso popolare per accusare il governo attualmente in carica di non essere adeguato, di non aver previsto l’accaduto, di non aver risposto “alla pancia dei cittadini”; in buona sostanza, quello che accade ogni volta che una parte dell’elettorato manifesta qualcosa. 

Questo tipo di sciacallaggio, tra l’altro e incredibilmente, si alzerebbe anche dagli alleati del governo in carica. E anche questo è un particolare che ci è sfuggito a più riprese: non importa quando e non importa come, ma è importante sempre tentare di salvarsi il culo accusando altri.

In un Sistema Politico come quello italiano, dove la meritocrazia è andata a ramengo molto prima del crollo della fantomatica Prima Repubblica, mettere in scacco il portafoglio “delle poltrone” è di sicuro il miglior modo per creare un terremoto.
Grazie a internet, più che mai utile per questo tipo di azioni, si verrebbe a creare un effetto domino informativo che scatenerebbe il panico assoluto anche sui mercati finanziari, che vedrebbero le Borse saltare per aria mandando Milano (il centro della Borsa italiana) col culo per terra. 


Domanda: e dopo?
Ecco, più di “come facciamo per realizzare una sventola del genere” dovremmo chiederci cosa fare dopo, quando la sventola è arrivata. 
Ci sarebbe bisogno di un Leader? O di un Portavoce? 

Sicuramente non sarebbe male averne uno capace di colloquiare, ma potrebbe non essere indispensabile. Non subito. In Italia gente onesta ce n’è, anche nel panorama politico, e qualcuno in grado di prendere le redini di un palazzo allo sfascio si farebbe avanti. 
Sarebbe quello giusto? Non possiamo saperlo, ma sicuramente in una situazione del genere non potrebbe fare più danni di quelli già presenti.

Il punto sul Leader è molto spinoso. Come ho detto, abbiamo dei politici onesti nel marasma di gentaglia che siede in Parlamento, ma ce ne sono anche fuori dal Palazzo.
A mio avviso sarebbe auspicabile una voce fuori dal coro, esterna alle dinamiche parlamentari e inizialmente di difficile “avvicinamento” da parte delle lobby politiche ultra-corrotte.

Bene. 

Ora vi ho chiarito sommariamente il “cosa” e anche una parte del “dopo”. 
Quello che rimane da capire, posto che tutto questo discorso possa avere un senso per qualcuno oltre che per me, è “come” arrivare a realizzarlo. 

Se ne scrivo e ne parlo è perché, a mio modesto avviso, ci sarebbero i presupposti sociali per avviare una simile “macchina da guerra”. 
Ma i presupposti legati al disagio sociale che si vive in Italia non sono sufficienti, perché il grande punto interrogativo è strettamente legato alla volontà del popolo (tutto il popolo) di essere, per la prima volta dal secondo dopoguerra, veramente protagonista di una rivoluzione. 
E qui entriamo nel campo delicato delle visioni che ognuno ha del futuro e di ciò che pensa che il futuro debba riservargli. 


Oggi, con la situazione attuale e i rapporti politici interni ed esterni (quelli con la UE e gli alleati di altri continenti), l’Italia non offre ai suoi cittadini nessuna garanzia di crescita economica, sociale, professionale.
Non è il parere di uno scontento disilluso, ma un dato di fatto che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno. Non esiste un solo campo in cui l’Italia non possa dire di essere migliore di altri paesi, perché abbiamo le risorse, le menti, la preparazione per pretenderlo. 

Ciò che blocca e incatrama l’Italia in una posizione assurda di sottomissione e sottosviluppo è la gestione dello Stato, e la gestione è in mano agli organi politici che hanno, di fatto, dimostrato di essere inadeguati, non attendibili e indifendibili sotto ogni punto di vista e in ogni situazione (almeno considerando gli ultimi trent’anni). Non esiste nessun partito, prima e adesso, che non sia passato per accuse di corruzione, concussione, rapporti mafiosi e che non sia stato indagato, almeno una volta, nella figura di uno o più dei suoi rappresentanti. 


Se volessimo dire che il Movimento5Stelle è fuori da questa lista nera, altrettanto non possiamo fare per la serietà che una parte dei loro rappresentanti ha chiaramente dimostrato di non avere, dal momento che anche il M5S ha avuto la sua parte di parlamentari passati ad altre forze politiche con quello che chiamiamo “walzer delle poltrone”. Una pratica assai poco edificante per chi si spacciava come “alternativa alla vecchia politica”.


Il “come fare”, allora, diventa quasi di seconda importanza.
Eppure, è vitale riuscire a capirlo. Tutto sommato è abbastanza semplice verificare se esiste anche un solo presupposto valido per ognuno di noi. Basta chiederci se siamo disposti a non avere nessun tipo di futuro. Perché di questo si tratta. La partita sul futuro che ci aspetta passa dalla nostra volontà di averne uno, di futuro. 

Non si deve pensare alla difficoltà che comporterebbe un “interregno” di scosse sociali dovute al blocco delle produzioni, ma a ciò che potremmo costruire durante quel periodo per avere un domani da giocarci con le nostre mani. 


Ed eccoci di nuovo tornati all’inizio. 
Ha senso sperare che giunga una fantomatica salvezza dall’attuale panorama politico? No.
Ha senso pensare che qualcosa possa cambiare quando è acclarato che non esiste prova tangibile che i governi presenti e passati abbiano fatto (o facciano) veri passi avanti per il bene reale del paese? No. 
Ha senso tenere in considerazione le parole dei leader politici quando ogni giorno abbiamo conferma della loro inaffidabilità? No. 
Ha senso pensare che i governanti tengano al bene del paese quando chiedono ai cittadini sacrifici che loro stessi non sono disposti a fare (e di fatto non fanno)? No.
Ha senso confidare su ideali fasulli spacciati come veri quando alla base della loro permanenza in Parlamento i politici hanno solamente il denaro e le agevolazioni che questo status comporta? No.


Se ne deduce che, dal momento che la politica serve a legiferare per il bene del paese, questa classe politica, nella sua interezza, ha completamente fallito e deve essere esautorata.
Non ci sono alternative.
Esattamente come nel caso dell’azienda che va male, così l’Italia deve licenziare coloro che l’hanno male amministrata e che non hanno, mai e in nessun modo, veramente tentato di risollevarla. Prove alla mano, senza paura e senza rimpianti.
Hanno fallito e vanno rimpiazzati. 


Da chi? In giro brave persone che hanno studiato e che sarebbero in grado di provare a gestire il paese ce ne sono. E, sì, dovrebbero essere cambiate un po’ di regole, per essere sicuri di non ricadere nei medesimi errori. 

Lo so, state pensando che è utopia anche questa e forse non avete tutti i torti, ma personalmente credo che l’idea del blocco delle produzioni (e dei consumi) per 72 ore sarebbe una prova accettabile e forse non così difficile da attuare, grazie al tam tam di internet.
Tanto per tastare il polso ai papaveri seduti nelle “stanze del potere”. 

Ci hanno preso a calci nel culo finora, siamo sicuri che l’ultimo modello di Iphone e la movida del sabato sera non siano sacrificabili per tentare di avere un futuro? 

Potremmo dimostrare che questo paese vuole essere cambiato e può cambiare. Che non ci fa paura niente, nemmeno le mafie, nemmeno le minacce, nulla. 
Che vogliamo per noi, e per chi verrà dopo di noi, un futuro da costruire. 


 Le Rivoluzioni nascono così. 
 E le Rivoluzioni si possono vincere se siamo disposti a combattere. 
Sempre.



venerdì 5 febbraio 2016

LA RAGIONE PER CUI



Siamo qui per uno scopo? Non lo sappiamo.
Abbiamo cercato di intuirlo in molti modi, ma non abbiamo trovato nulla che vada bene per tutti. Sappiamo che c’è stato un inizio, per la nostra specie, e la scienza ha cercato, e cerca tuttora, di dare una spiegazione ragionevole e logica. Attraverso lo studio, la ricerca e l’analisi delle prove che ci vengono fornite dal passato si è cercato di arrivare a delle risposte, anche se è pur vero che spesso troviamo nuove domande.
L’Inizio ha cercato, e trovato, spiegazione nelle parole dei culti religiosi. Ognuno di questi, a modo suo, traccia una via su come il Creatore avrebbe dato inizio al Tutto. Scientificamente non sono plausibili, spesso sono contradditori e illogici, ma hanno accolto consensi e non solo in epoche in cui il Sapere e la Conoscenza erano ad appannaggio di élite ristrette, ma anche nell’epoca moderna. Un dato di fatto resta incontrovertibile: noi siamo qui e se siamo qui è perché in qualche punto del passato tutto è iniziato.
Questa certezza è la sola che abbiamo. Non ci sono prove, né testimonianze concrete, dell’esistenza di una ragione che motivi la nostra esistenza. Purtroppo, noi sentiamo l’esigenza di dover trovare per forza “La ragione per cui”. Curiosamente, potrebbe esserci una risposta certa, pur non essendo quella che vorremmo ascoltare. Il motivo è semplice, quanto disarmante: siamo esseri limitati, nel corpo, quanto illimitati nella mente, ma è la coesione tra queste due parti che è sbilanciata, perché prestiamo alla parte “materiale” della nostra esistenza la maggior parte dell’attenzione.
Vedere, ascoltare, annusare, gustare, toccare sono i cardini su cui si muove la nostra percezione dal momento in cui nasciamo; a ogni passo della nostra vita ciò che ne scandisce la permanenza è il mondo fisico, con tutte le sue incredibili e variegate sfaccettature. Quel che rende possibili queste interazioni è il nostro cervello, eppure noi tendiamo a dimenticare questa splendida e incredibile macchina biologica. Lo diamo per scontato.
Il cervello è qualcosa di fisico eppure, svolte le sue funzioni di coordinamento, esso si “trastulla” con la creazione di una quantità inimmaginabile di dati: il pensiero. Ed ecco giungere il paradosso. Viviamo il mondo che ci attornia con i nostri cinque sensi e con essi ne misuriamo l’estensione, la capacità, la densità, ma quello che consideriamo “immateriale” è quello che dà più senso al “materiale”. Alla continua ricerca di risposte, tralasciamo il fatto che esse nascono da domande che la nostra mente formula di continuo. L’interminabile indagine che portiamo avanti con l’osservazione troppo spesso è ridotta a un cumulo di dati che, fine a sé stessi, ci inducono a conclusioni imprecise, incomplete.
E "la ragione per cui” continua a sfuggirci.
Lo scopo della nostra esistenza e il punto d’origine dell’immenso di cui siamo parte è un grande affresco, una sterminata tela in divenire. La prima pennellata non è meno importante di quella, ancora fresca, appena depositata. Solo il movimento armonico del pensiero e del corpo, dell’immateriale e del materiale, sono in grado di condurci sul sentiero della conoscenza e della comprensione che esiste un motivo per cui esistiamo.
Quando l’evoluzione ci avrà portato fin lì, sarà stupefacente osservare quanto meraviglioso cammino ci aspetti ancora, prima di togliere la parola fine dal nostro vocabolario.
E osservare che l’inizio non è mai cominciato.