lunedì 22 febbraio 2016

RIVOLUZIONI




Come aggiustiamo un paese che non vuole essere aggiustato? Come possiamo rimediare a una situazione che è palesemente degenerata?
Forse non è possibile. O almeno, non lo è finché continuiamo a voler tenere la testa sotto la sabbia.  

Ho scritto: un paese che non vuole essere aggiustato. Ed è vero. 
Ciò, però, non deve indurre al pensiero che sia la classe politica (chi legifera) il problema, perché essa è l’effetto prodotto dal nostro continuo silenzio-assenso. 

Noi abbiamo accettato: un certo numero di promesse; un certo numero di idee; abbiamo chiuso gli occhi di fronte a lapalissiane storture; “perdonato” una serie infinita di deviazioni dal concetto principale, quello di far crescere il nostro paese. 
In una parola: compromessi. 

È fondamentale comprendere che la prima responsabilità di quello che accade è nostra, perché senza questa consapevolezza continueremo ad aspettare l’arrivo di un salvatore che ci traini fuori dal fango in cui stiamo agonizzando. E ciò non avverrà mai.
Allora, come ribaltiamo la situazione? 


Beppe Grillo, quando ancora faceva il comico satirico, disse una cosa che non abbiamo compreso: la politica è al servizio dello Stato e dei cittadini, non il contrario.
Tenuto in debito conto questo concetto risulta semplice dedurre che non si può prendere per buone le parole della classe politica (tutta) quando afferma che “bisogna fare sforzi per risollevare il paese”, perché questi sforzi sono chiesti ai cittadini dello stato escludendo quelli che dovrebbero rispondere per primi a questa chiamata (la classe politica, appunto). 


L’esempio di un’azienda risulta chiarificatore: 
un'azienda è un organo che a seguito di prestazioni (qualsiasi esse siano) riceve dei compensi.
Su questi compensi gravano una serie di imposte e detrazioni fisse (stipendi dei lavoratori dell’azienda e altro) e una volta esaurite tutte le spese ciò che rimane è l’utile dell’azienda. Il guadagno.
Se però l’azienda, nella figura dei suoi dirigenti e dei lavoratori, opera male e perde compensi, ne consegue che si deve cercare la responsabilità e quindi si deve individuare colui (o coloro) che è responsabile del cattivo andamento dell’azienda stessa.
Normalmente questo comporta un licenziamento per i dirigenti e/o i lavoratori indicati come cause della perdita. 

Ora che abbiamo fatto questo piccolo e banale esempio, pensiamo all’Italia come a una azienda e arriviamo al sospirato nocciolo della questione: se l’Italia va male perché è amministrata da anni in modo inefficace e improduttivo, perché a farne le spese devono essere i cittadini che non legiferano?
Perché dovremmo essere noi a pagare per il cattivo funzionamento dello Stato quando non abbiamo voce in capitolo sulle leggi che vengono promulgate? Appunto.
E infatti qui si torna a bomba all’inizio: l’unica arma a nostra disposizione, finora, è stata la votazione. Le elezioni. Straordinario! 

Ma è vero che è l’unica arma? Ed è vero che l’abbiamo usata bene? 


Fino a oggi per poter cambiare le cose (guida politica) abbiamo avuto le elezioni come sistema per far sentire la nostra voce. In realtà ciò che non ci è mai stato chiaro, nemmeno ora ed è evidente, è che l’èlite seduta in Parlamento è stata sempre quella e, soprattutto, che sembra esserci un virus che contagia i nuovi arrivati; prima di andare a sedersi sugli scranni sembrano battaglieri alfieri dei cittadini e dopo si trasformano in avvoltoi.

Certo, si può obiettare che non si può applicare questa frase a tutti gli eletti, ma dal momento che la maggior parte si comporta in questo modo è lecito desumere che: 
a) parecchi prima erano dei falsi onesti;
b) alcuni sono rimasti onesti ma vengono relegati a comparse o tartassati personalmente per “non nuocere al Sistema”.


Purtroppo, le prove a sostegno di un Parlamento viziato da meri interessi personali sono così tante che anche gli onesti parlamentari (pare che ce ne siano...) finiscono nel tritacarne del “sono tutti uguali” e non si può giudicare male il pensiero del cittadino se egli è portato a una simile considerazione. 

Bene. È necessario, quindi, un cambiamento radicale.
Possiamo esercitarlo con il voto? La risposta è no e il motivo è paradossale. 

Nello sconfortante panorama politico le alternative di voto non sono molte.
Quando siamo alle urne noi tendiamo a fare considerazioni di questo tipo (userò i colori per distinguere): 
a) i bianchi sono stati al potere tanto tempo e non hanno cambiato nulla; 
b) i rossi sono stati poco al potere, ma non hanno cambiato quasi niente; 
c) i verdi non ci sono mai stati (al potere) e se si dimostrassero inadeguati farebbero più danno, quindi voterò o i bianchi o i rossi; 
d) non voto nessuno; 
e) (estremo) non vado a votare. 

Questi sono i cinque “casi-tipo” dell’elettore medio. E come risulta chiaro, non se ne esce, perché l’unica cosa abbastanza ragionevole sarebbe di permettere ai verdi di poter dar prova della loro capacità di governare.
Anche perché, qualora non fossero in grado, le opposizioni li farebbero a pezzi facendo cadere il governo e riportando il paese a nuove elezioni.

In ognuno di questi scenari il potere dei cittadini è legato a un voto, a una scheda e alle urne. Troppo poco per un paese completamente in mano alla corruzione in ogni ufficio, in ogni angolo e interstizio del mondo politico/parlamentare.

Quindi, abbiamo usato l’arma delle elezioni come potevamo e al meglio delle nostre (limitate) capacità di giudizio, supponendo che presto o tardi la legalità avrebbe vinto. Un’utopia. 


L’altra arma che abbiamo in mano per tentare di portare coloro che governano a più miti consigli è colpire dove risulta più difficile fermarci. La produzione e il lavoro. 

Ciò che noi chiamiamo “tasse” è un ingarbugliato sistema che raccoglie, in modo forzoso, del denaro dalle tasche di ogni cittadino (e di ogni azienda) e lo devolve alle casse dello Stato. 

Quel che viene fatto con queste tasse è un agglomerato spaventoso di cose, tra le quali ci sono anche gli stipendi dei “nostri amici parlamentari”.
È chiaro che bloccare la produzione significa, prima di tutto, danneggiare delle aziende, soprattutto quelle grandi. È un ostacolo che non è possibile aggirare e temere di essere “cattivi” agendo in questo modo è esattamente quello che vogliono farci credere. 

È dalla produzione (in tutte le sue sfaccettature) che passa la gran parte delle risorse monetarie che finiscono nelle casse statali con le tasse e bloccando questo flusso si manderebbe in stallo il Sistema, immaginandolo come un immenso groviglio di ingranaggi. 

Per comprendere come potrebbe funzionare immaginate che per 72 ore le produzioni industriali, i servizi, le microimprese, si fermino.
Immaginate che altrettanto facciano i fruitori (gli utenti) di tutta una serie di servizi (pubblici e privati). Cioè, qualche milione di lavoratori che rimangono a casa senza preavviso. 
Dai manager ai tecnici specializzati, dagli operai ai commessi. E che gli avventori non si rechino ai soliti acquisti quotidiani per lo stesso tempo, 72 ore. Tutto fermo.


Quando si dice che il tempo è denaro…
Provate a pensare al danno che si verrebbe a creare, in termini economici, per un simile stallo di soli tre (3) giorni. Produzione ferma, economia ferma. Uno sciopero ad ampio raggio su tutto il territorio nazionale.
La perdita sarebbe spaventosa e probabilmente risulta di difficile previsione. 


E qui sorge una domanda: come reagirebbe un governo di fronte a una nazione ferma? Una nazione che si rifiuta di obbedire semplicemente ponendo a terra i suoi strumenti di lavoro e lasciando nel portafoglio anche i soldi della spesa?
Come potrebbe un governo rispondere a una simile situazione? Difficile prevederlo. 

Probabilmente le prime reazioni politiche sarebbero quelle di sciacallaggio informativo. Cavalcare l’onda del dissenso popolare per accusare il governo attualmente in carica di non essere adeguato, di non aver previsto l’accaduto, di non aver risposto “alla pancia dei cittadini”; in buona sostanza, quello che accade ogni volta che una parte dell’elettorato manifesta qualcosa. 

Questo tipo di sciacallaggio, tra l’altro e incredibilmente, si alzerebbe anche dagli alleati del governo in carica. E anche questo è un particolare che ci è sfuggito a più riprese: non importa quando e non importa come, ma è importante sempre tentare di salvarsi il culo accusando altri.

In un Sistema Politico come quello italiano, dove la meritocrazia è andata a ramengo molto prima del crollo della fantomatica Prima Repubblica, mettere in scacco il portafoglio “delle poltrone” è di sicuro il miglior modo per creare un terremoto.
Grazie a internet, più che mai utile per questo tipo di azioni, si verrebbe a creare un effetto domino informativo che scatenerebbe il panico assoluto anche sui mercati finanziari, che vedrebbero le Borse saltare per aria mandando Milano (il centro della Borsa italiana) col culo per terra. 


Domanda: e dopo?
Ecco, più di “come facciamo per realizzare una sventola del genere” dovremmo chiederci cosa fare dopo, quando la sventola è arrivata. 
Ci sarebbe bisogno di un Leader? O di un Portavoce? 

Sicuramente non sarebbe male averne uno capace di colloquiare, ma potrebbe non essere indispensabile. Non subito. In Italia gente onesta ce n’è, anche nel panorama politico, e qualcuno in grado di prendere le redini di un palazzo allo sfascio si farebbe avanti. 
Sarebbe quello giusto? Non possiamo saperlo, ma sicuramente in una situazione del genere non potrebbe fare più danni di quelli già presenti.

Il punto sul Leader è molto spinoso. Come ho detto, abbiamo dei politici onesti nel marasma di gentaglia che siede in Parlamento, ma ce ne sono anche fuori dal Palazzo.
A mio avviso sarebbe auspicabile una voce fuori dal coro, esterna alle dinamiche parlamentari e inizialmente di difficile “avvicinamento” da parte delle lobby politiche ultra-corrotte.

Bene. 

Ora vi ho chiarito sommariamente il “cosa” e anche una parte del “dopo”. 
Quello che rimane da capire, posto che tutto questo discorso possa avere un senso per qualcuno oltre che per me, è “come” arrivare a realizzarlo. 

Se ne scrivo e ne parlo è perché, a mio modesto avviso, ci sarebbero i presupposti sociali per avviare una simile “macchina da guerra”. 
Ma i presupposti legati al disagio sociale che si vive in Italia non sono sufficienti, perché il grande punto interrogativo è strettamente legato alla volontà del popolo (tutto il popolo) di essere, per la prima volta dal secondo dopoguerra, veramente protagonista di una rivoluzione. 
E qui entriamo nel campo delicato delle visioni che ognuno ha del futuro e di ciò che pensa che il futuro debba riservargli. 


Oggi, con la situazione attuale e i rapporti politici interni ed esterni (quelli con la UE e gli alleati di altri continenti), l’Italia non offre ai suoi cittadini nessuna garanzia di crescita economica, sociale, professionale.
Non è il parere di uno scontento disilluso, ma un dato di fatto che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno. Non esiste un solo campo in cui l’Italia non possa dire di essere migliore di altri paesi, perché abbiamo le risorse, le menti, la preparazione per pretenderlo. 

Ciò che blocca e incatrama l’Italia in una posizione assurda di sottomissione e sottosviluppo è la gestione dello Stato, e la gestione è in mano agli organi politici che hanno, di fatto, dimostrato di essere inadeguati, non attendibili e indifendibili sotto ogni punto di vista e in ogni situazione (almeno considerando gli ultimi trent’anni). Non esiste nessun partito, prima e adesso, che non sia passato per accuse di corruzione, concussione, rapporti mafiosi e che non sia stato indagato, almeno una volta, nella figura di uno o più dei suoi rappresentanti. 


Se volessimo dire che il Movimento5Stelle è fuori da questa lista nera, altrettanto non possiamo fare per la serietà che una parte dei loro rappresentanti ha chiaramente dimostrato di non avere, dal momento che anche il M5S ha avuto la sua parte di parlamentari passati ad altre forze politiche con quello che chiamiamo “walzer delle poltrone”. Una pratica assai poco edificante per chi si spacciava come “alternativa alla vecchia politica”.


Il “come fare”, allora, diventa quasi di seconda importanza.
Eppure, è vitale riuscire a capirlo. Tutto sommato è abbastanza semplice verificare se esiste anche un solo presupposto valido per ognuno di noi. Basta chiederci se siamo disposti a non avere nessun tipo di futuro. Perché di questo si tratta. La partita sul futuro che ci aspetta passa dalla nostra volontà di averne uno, di futuro. 

Non si deve pensare alla difficoltà che comporterebbe un “interregno” di scosse sociali dovute al blocco delle produzioni, ma a ciò che potremmo costruire durante quel periodo per avere un domani da giocarci con le nostre mani. 


Ed eccoci di nuovo tornati all’inizio. 
Ha senso sperare che giunga una fantomatica salvezza dall’attuale panorama politico? No.
Ha senso pensare che qualcosa possa cambiare quando è acclarato che non esiste prova tangibile che i governi presenti e passati abbiano fatto (o facciano) veri passi avanti per il bene reale del paese? No. 
Ha senso tenere in considerazione le parole dei leader politici quando ogni giorno abbiamo conferma della loro inaffidabilità? No. 
Ha senso pensare che i governanti tengano al bene del paese quando chiedono ai cittadini sacrifici che loro stessi non sono disposti a fare (e di fatto non fanno)? No.
Ha senso confidare su ideali fasulli spacciati come veri quando alla base della loro permanenza in Parlamento i politici hanno solamente il denaro e le agevolazioni che questo status comporta? No.


Se ne deduce che, dal momento che la politica serve a legiferare per il bene del paese, questa classe politica, nella sua interezza, ha completamente fallito e deve essere esautorata.
Non ci sono alternative.
Esattamente come nel caso dell’azienda che va male, così l’Italia deve licenziare coloro che l’hanno male amministrata e che non hanno, mai e in nessun modo, veramente tentato di risollevarla. Prove alla mano, senza paura e senza rimpianti.
Hanno fallito e vanno rimpiazzati. 


Da chi? In giro brave persone che hanno studiato e che sarebbero in grado di provare a gestire il paese ce ne sono. E, sì, dovrebbero essere cambiate un po’ di regole, per essere sicuri di non ricadere nei medesimi errori. 

Lo so, state pensando che è utopia anche questa e forse non avete tutti i torti, ma personalmente credo che l’idea del blocco delle produzioni (e dei consumi) per 72 ore sarebbe una prova accettabile e forse non così difficile da attuare, grazie al tam tam di internet.
Tanto per tastare il polso ai papaveri seduti nelle “stanze del potere”. 

Ci hanno preso a calci nel culo finora, siamo sicuri che l’ultimo modello di Iphone e la movida del sabato sera non siano sacrificabili per tentare di avere un futuro? 

Potremmo dimostrare che questo paese vuole essere cambiato e può cambiare. Che non ci fa paura niente, nemmeno le mafie, nemmeno le minacce, nulla. 
Che vogliamo per noi, e per chi verrà dopo di noi, un futuro da costruire. 


 Le Rivoluzioni nascono così. 
 E le Rivoluzioni si possono vincere se siamo disposti a combattere. 
Sempre.